1) I fedeli divorziati risposati si trovano in una situazione che contraddice oggettivamente l’indissolubilità del matrimonio. Per fedeltà all’insegnamento di Gesù la Chiesa è fermamente convinta che il matrimonio è indissolubile. Il Vaticano II insegna: “Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità” (GS 48). La Chiesa ritiene anche che nessuno, neppure il Papa, ha il potere di sciogliere un matrimonio sacramentale rato e consumato (cfr. can. 1141). Pertanto essa non può “riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio” (Lettera, 4). Sicché è proibito “per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere” (FC 84).
2) I fedeli divorziati risposati rimangono membri del Popolo di Dio e pertanto sono chiamati a sperimentare l’amore di Cristo e la vicinanza materna della chiesa. Sebbene questi fedeli vivano in una situazione che contraddice il messaggio del Vangelo, non sono scomunicati, e cioè esclusi dalla comunione ecclesiale. Essi sono e restano membri della Chiesa, perché hanno ricevuto il battesimo e conservano integra la fede cristiana. Il Direttorio di Pastorale familiare della CEI: “Quanti vivono in una situazione irregolare, pur continuando ad appartenere alla Chiesa, non sono in piena comunione con essa. Non lo sono perché la loro condizione di vita è in contraddizione con il Vangelo di Gesù, che propone ed esige dai cristiani un matrimonio celebrato nel Signore, indissolubile e fedele” (DPF, "Direttorio di pastorale famigliare", 197). Seguendo l’esempio di Gesù che non escludeva nessuno dal suo amore, la Chiesa deve essere loro vicina mettendo a disposizione i suoi mezzi di salvezza (FC, "Familiaris Consortio", esortazione apostolica, 84). I pastori devono discernere le diverse situazioni perché alcuni hanno distrutto l’unione matrimoniale per loro grave colpa, altri sono stati abbandonati dal coniuge; alcuni sono convinti in coscienza della nullità del loro precedente matrimonio, altri si sono risposati prevalentemente per assicurare l’educazione dei figli nati dalla nuova unione; infine vi sono quelli che nella seconda unione hanno riscoperto la fede e già hanno trascorso un lungo cammino di penitenza (cfr. FC 84). A partire da questo discernimento, che tiene conto della singolarità delle diverse situazioni, i pastori mostreranno ai fedeli interessati vie concrete di conversione e di partecipazione alla vita ecclesiale. In ogni caso “la Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza” (FC 84).
3) In quanto battezzati, i fedeli divorziati risposati sono chiamati a partecipare attivamente alla vita della chiesa, nella misura in cui questo è compatibile con la loro situazione oggettiva. Come membri della Chiesa, i fedeli divorziati risposati sono esortati:
- “ad ascoltare la Parola di Dio,
- a frequentare il sacrificio della Messa,
- a perseverare nella preghiera,
- a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia,
- a educare i figli nella fede cristiana,- a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio”(FC 84).
In particolare la Lettera della CDF ("Congregazione per la Dottrina della Fede"), a proposito dell’eucaristia, sottolinea il significato della comunione spirituale (n. 6) e ricorda che la partecipazione alla vita ecclesiale non può essere ridotta alla questione della ricezione della comunione, come spesso avviene.
4) A motivo della loro situazione oggettiva i fedeli divorziati risposati non possono essere ammessi alla S. Comunione e neppure accedere di propria iniziativa alla mensa del Signore.
La Chiesa ribadisce “la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati” (FC 84). Questa norma non è un regolamento puramente disciplinare, che potrebbe essere cambiato dalla Chiesa, ma deriva da una situazione obiettiva che rende impossibile in sé l’accesso alla S. Comunione. A dire il vero, non è la Chiesa che esclude tali fedeli, ma “sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”(FC 84). L’Eucaristia infatti è il cibo che aiuta i coniugi ad amarsi e ad immolarsi vicendevolmente come Cristo ha amato la Chiesa e si è immolato per lei. Nel caso dei divorziati risposati l’immolazione per il vero coniuge viene palesemente contraddetta. A questo motivo primario se ne aggiunge un secondo, di natura più pastorale: “se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio” (FC 84). Qualcuno distingue fra ammissione ufficiale alla S. Comunione (che non è possibile) e autorizzazione in taluni casi della propria coscienza ad accedere alla mensa del Signore. Di contro la Lettera della CDF sottolinea: “Il fedele che convive abitualmente more uxoriocon una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, non può accedere alla Comunione eucaristica. Qualora egli lo giudicasse possibile, i pastori e i confessori, date la gravità della materia e le esigenze del bene spirituale della persona e del bene comune della Chiesa, hanno il grave dovere di ammonirlo che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa. Devono anche ricordare questa dottrina nell’insegnamento a tutti i fedeli loro affidati” (n. 6). Accettando la dottrina e la prassi della Chiesa, i fedeli divorziati risposati a loro modo continuano a testimoniare l’indissolubilità del matrimonio e la loro fedeltà alla Chiesa (cfr. Lettera, 9).
5) A motivo della loro situazione obiettiva i fedeli divorziati risposati
non possono “esercitare certe responsabilità ecclesiali” (CCC 1650). Il
DPF scrive: “La partecipazione dei divorziati risposati alla vita della
Chiesa rimane condizionatadalla loro non piena appartenenza ad essa. È
evidente che essi non possono svolgere nella comunità ecclesiale quei
servizi che esigono una pienezza di testimonianza cristiana, come sono i
servizi liturgici e in particolare quello di lettori, il ministero di
catechista, l’ufficio di padrino per i sacramenti. Nella
stessa prospettiva, è da escludere una loro partecipazione ai consigli
pastorali, i cui membri, condividendo in pienezza la vita della comunità
cristiana, ne sono in qualche modo i rappresentanti e i delegati. Non
sussistono invece ragioni intrinseche per impedire che un divorziato
risposato funga da testimone nella celebrazione del matrimonio: tuttavia
saggezza pastorale chiederebbe di evitarlo, per il chiaro contrasto che
esiste tra il matrimonio indissolubile di cui il soggetto si fa
testimone e la situazione di violazione della stessa indissolubilità che
egli vive personalmente” (DPF 218). In particolare per l’ufficio di padrino si richiede “una vita conforme alla fede e all’incarico che assume” (can. 874).
6) Se i fedeli divorziati risposati si separano o vivono come fratello e sorella, possono essere ammessi ai Sacramenti. Perché i divorziati risposati possano ricevere validamente il sacramento della riconciliazione, che apre l’accesso alla S. Comunione, devono essere seriamente disposti a cambiare la loro situazione di vita, in modo che non sia più in contrasto con l’indissolubilità del matrimonio. Questo significa concretamente che essi si devono pentire di aver infranto il vincolo sacramentale matrimoniale, che è immagine dell’unione sponsale fra Cristo e la sua Chiesa, e che si separino da chi non è il loro legittimo coniuge. Se questo per motivi seri, ad esempio l’educazione dei figli, non è possibile, essi si devono proporre di vivere in piena continenza (FC 84). Con l’aiuto della grazia che tutto supera e col loro deciso impegno, la loro relazione deve trasformarsi sempre più in un legame di amicizia, di stima e di aiuto reciproco. Rimane tuttavia l’obbligo di “evitare lo scandalo” (n. 4) presso i fedeli che li conoscono come irregolari. Sicché potranno ricevere l’assoluzione dei peccati e la S. Comunione pubblicamente là dove non sono conosciuti come tali.
7) I fedeli divorziati risposati, soggettivamente convinti della invalidità del loro matrimonio precedente, devono regolarizzare la loro situazione in foro esterno. Il matrimonio, dal momento che crea per ciascun partner una specifica situazione ecclesiale e sociale, ha essenzialmente carattere pubblico. Pertanto non compete in ultima istanza alla coscienza personale degli interessati decidere, sul fondamento della propria convinzione, della sussistenza o meno di un matrimonio precedente e del valore della nuova relazione(cfr. Lettera, 7-8). Il CJC, il codice di diritto canonico, conferma la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici circa l’esame della validità del matrimonio dei cattolici. Pertanto chi è convinto in coscienza dell’invalidità del precedente matrimonio deve rivolgersi al tribunale ecclesiastico, al quale compete di esaminare, con un procedimento di foro esterno, l’eventuale obiettiva invalidità.
Il CJC offre anche nuove vie per dimostrare la nullità di un matrimonio perché ha stabilito norme per le quali (cfr. can. 1536 § 2 e can. 1679) le sole dichiarazioni delle parti possono costituire prova sufficiente di nullità, naturalmente ove tali dichiarazioni offrano garanzia di piena credibilità. D’altra parte, poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale, e poiché anche qui vale il principio fondamentale "nemo iudex in propria causa" (nessuno è giudice nella propria causa), le questioni matrimoniali vanno risolte in foro esterno.
8) I fedeli divorziati risposati non devono mai perdere la speranza di raggiungere la salvezza. “La Chiesa con ferma fiducia crede che anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità” (FC 84). Anche se la Chiesa non può mai approvare una prassi che si oppone alle esigenze della verità e al bene comune della famiglia e della società, nondimeno non smette di amare i suoi figli in difficili situazioni matrimoniali, di portare insieme con loro le difficoltà e sofferenze, di accompagnarli con cuore materno e di confermarli nella fede che essi non sono esclusi da quella corrente di grazia, che purifica, illumina, trasforma e conduce alla salvezza eterna. Pertanto “la chiesa invita i suoi figli, che si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste” (RP, "Reconciliatio et penitentia", 34).
6) Se i fedeli divorziati risposati si separano o vivono come fratello e sorella, possono essere ammessi ai Sacramenti. Perché i divorziati risposati possano ricevere validamente il sacramento della riconciliazione, che apre l’accesso alla S. Comunione, devono essere seriamente disposti a cambiare la loro situazione di vita, in modo che non sia più in contrasto con l’indissolubilità del matrimonio. Questo significa concretamente che essi si devono pentire di aver infranto il vincolo sacramentale matrimoniale, che è immagine dell’unione sponsale fra Cristo e la sua Chiesa, e che si separino da chi non è il loro legittimo coniuge. Se questo per motivi seri, ad esempio l’educazione dei figli, non è possibile, essi si devono proporre di vivere in piena continenza (FC 84). Con l’aiuto della grazia che tutto supera e col loro deciso impegno, la loro relazione deve trasformarsi sempre più in un legame di amicizia, di stima e di aiuto reciproco. Rimane tuttavia l’obbligo di “evitare lo scandalo” (n. 4) presso i fedeli che li conoscono come irregolari. Sicché potranno ricevere l’assoluzione dei peccati e la S. Comunione pubblicamente là dove non sono conosciuti come tali.
7) I fedeli divorziati risposati, soggettivamente convinti della invalidità del loro matrimonio precedente, devono regolarizzare la loro situazione in foro esterno. Il matrimonio, dal momento che crea per ciascun partner una specifica situazione ecclesiale e sociale, ha essenzialmente carattere pubblico. Pertanto non compete in ultima istanza alla coscienza personale degli interessati decidere, sul fondamento della propria convinzione, della sussistenza o meno di un matrimonio precedente e del valore della nuova relazione(cfr. Lettera, 7-8). Il CJC, il codice di diritto canonico, conferma la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici circa l’esame della validità del matrimonio dei cattolici. Pertanto chi è convinto in coscienza dell’invalidità del precedente matrimonio deve rivolgersi al tribunale ecclesiastico, al quale compete di esaminare, con un procedimento di foro esterno, l’eventuale obiettiva invalidità.
Il CJC offre anche nuove vie per dimostrare la nullità di un matrimonio perché ha stabilito norme per le quali (cfr. can. 1536 § 2 e can. 1679) le sole dichiarazioni delle parti possono costituire prova sufficiente di nullità, naturalmente ove tali dichiarazioni offrano garanzia di piena credibilità. D’altra parte, poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale, e poiché anche qui vale il principio fondamentale "nemo iudex in propria causa" (nessuno è giudice nella propria causa), le questioni matrimoniali vanno risolte in foro esterno.
8) I fedeli divorziati risposati non devono mai perdere la speranza di raggiungere la salvezza. “La Chiesa con ferma fiducia crede che anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità” (FC 84). Anche se la Chiesa non può mai approvare una prassi che si oppone alle esigenze della verità e al bene comune della famiglia e della società, nondimeno non smette di amare i suoi figli in difficili situazioni matrimoniali, di portare insieme con loro le difficoltà e sofferenze, di accompagnarli con cuore materno e di confermarli nella fede che essi non sono esclusi da quella corrente di grazia, che purifica, illumina, trasforma e conduce alla salvezza eterna. Pertanto “la chiesa invita i suoi figli, che si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste” (RP, "Reconciliatio et penitentia", 34).
Per concludere, la misericordia è verso la persona non verso l'errore. Se avessimo misericordia verso l'errore, la misericordia diventerebbe tolleranza e tolleranza del male. Mentre il male va sempre condannato e combattuto, a tal punto che per salvaguardare la misericordia verso la persona e per condannare l'errore, il peccato, si può andare anche in croce continuando ad amare, ad esercitare la misericordia verso la persona che ha commesso il peccato, l'errore, ma nello stesso tempo a condananre il peccato come male capace di crocifiggere. Infatti il peccato crocifigge chi lo fa, crocifigge il corpo mistico della Chiesa e crocifigge Gesù il capo del corpo della Chiesa! La misericordia è data a ciascuno di noi per combattere il peccato, non per aver l'alibi di peccare senza pensare che esista la giustizia e senza ripristinare la giustizia. Invece la massoneria è relativista, vuole imporre l'abominio della "dittatura del ralativismo" e della "l'assoluzione preventiva dal peccato" proponendo il falso valore della tolleranza, tollerare il male fregandosene della persona, mentre l'unico modo di interessarsi veramente delle anime è invece la misericordia che le accoglie sempre ma che è molto chiara su ciò che devasta l'anima e ciò che la guarisce. Chi ama ed è misericordioso respinge il male per se e per gli altri, affidando la fragilità del peccato a Gesù per vincerlo con la Sua forza!